Del territorio. Su Saluzzo, i braccianti e il Partito Democratico.

[Dopo l’intervista a Gabriele Curti e l’intervento del sindaco Allemano in merito allo sgombero dell’accampamento dei lavoratori africani a Saluzzo, Il Caleidofono torna sul luogo per raccontare l’evoluzione della situazione. Era sabato 20 luglio a Saluzzo e, nel pomeriggio, Fabrizio Barca parlava a una platea del Partito Democratico…]

In basso.

Il Foro Boario ora è diviso da un cancello. Al di qua del cancello vivono accampati cinquecento africani, senza contratto e con la speranza di essere assunti quando inizierà la nuova raccolta. Al di là – sui battenti sventolano le bandiere gialle e verdi di Coldiretti – è stato creato un campo d’accoglienza che ospita circa cinquanta lavoratori. Undici container da sei posti letto sono affiancati uno accanto all’altro, poi due docce e altrettanti bagni. Solo coloro che hanno già un contratto possono superare il confine del cancello e abitare il campo. Un ragazzo con la maglietta gialla piantona l’ingresso.

Credo che ogni territorio nasca quando uno spazio del mondo è investito da un’azione politica: la superficie non è più neutra, il territorio porta con sé un significato simbolico e istituisce le forme di convivenza fra gli uomini (nel bene, come nel male). La cancellata segna una linea territoriale. Io ho visto il mondo dal di qua, dalla parte degli accampati, dei cinquecento che ancora non hanno un contratto.

«Ci sono altri due campi organizzati per i lavoratori regolari: uno a Lagnasco e uno a Verzuolo, entrambi di ventiquattro posti», mi dicono due ragazzi di Imola delle Brigate di solidarietà attiva. Sono venuti a Saluzzo per aiutare il Comitato Antirazzista nell’organizzazione del campo non istituzionale. Qui le capanne hanno uno scheletro di legno – messo su con i rami raccolti intorno – e sono coperte da cartoni e da teloni impermeabili. «Un gruppo di ragazzi più creativi ha costruito una capanna multicolore: blu, gialla, verde.»

SaluzzoColdiretti

Mi trovo vicino al confine e da un’auto due carabinieri mi chiedono i documenti. Mentre segnano i miei dati su una tabella vedo, oltre un campo di granoturco, un edificio costruito da poco, privo di porte e di finestre – come abbandonato. «Abito lì, insieme ad altri», mi dice un ragazzo del Niger. Gli chiedo se c’è lavoro. «È molto difficile trovarlo, ma presto inizia il pieno della stagione. Sono disposto a lavorare anche a un euro all’ora.» Un altro ragazzo ha ventun anni e una maglietta rossa: «Sono in Italia da due anni e non riesco a lavorare. Cosa devo fare? Rubare?» – viene dalla Costa d’Avorio e non sa l’italiano.

Le strutture del campo al di là del cancello sono finanziate dalla Camera di Commercio e della Cassa di Risparmio di Cuneo. Immagino che la separazione fra il campo dei container e l’accampamento limitrofo sia frutto di un disegno razionale: i proprietari assumono i braccianti indispensabili e poi, a seconda delle esigenze, dispongono di una manodopera a prezzi irrisori, senza la necessità di stipulare contratti – la separazione creerebbe così un mercato del lavoro vantaggioso per i produttori. Ma è falso.

Karim ha un contratto, vive in un container Coldiretti ma passa il tempo oltre le recenzioni, insieme ai cinquecento accampati. Attende l’inizio della prossima raccolta: «Prendo sei euro e cinquanta all’ora, lavoro otto ore. Al massimo dieci. E no, non ho ancora visto nessuno lavorare nei campi senza contratto: qui non è Rosarno.» I due ragazzi di Imola aggiungono che qui non esiste il caporalato e che al massimo i contratti sono “grigi”: «a volte le ore segnate sono inferiori a quelle effettivamente retribuite.» Non arriva nessuno a caricare i ragazzi, a portarli nei campi, così ciascuno deve raggiungere in bici le aziende e offrire la sua manodopera. «Se qualcuno di loro provasse a fare il caporale molti non lo accetterebbero e si incazzerebbero: diversi ragazzi hanno vissuto Rosarno e hanno una buona coscienza di queste dinamiche.» Karim rimane serio: «Per me le condizioni sono giuste, io lavoro sotto un solo padrone e non mi lamento.»

In alto.

I campi circondano Saluzzo, spianate a Nord a Est e a Sud-Est, mentre la città si sviluppa in verticale: ho seguito strada che parte dai portici, lascia la piazza del mercato e si inerpica su, su fino all’antico palazzo comunale, cuore della memoria medievale. Per me Saluzzo è un in alto e un in basso. In basso le distese di alberi e di grano, il Foro Boario e gli accampamenti.

SaluzzoAlto

E in alto, sotto il porticato dell’edificio storico, arrivo in tempo per assistere a un incontro politico organizzato dal Pd saluzzese. Di fronte a una platea di sessanta, forse settanta, persone, dibattono il sindaco Allemano, il deputato Pd Chiara Gribaudo e Fabrizio Barca, già ministro senza portafoglio con il governo Monti e da qualche mese promotore di un’idea di rinnovamento interno al Partito Democratico.

(Mi chiedo se mi sia concesso raccontare. Io non appartengo al Pd e l’evento, con ogni evidenza, era rivolto ai militanti – lungo le strade non vi era alcun manifesto. E allora che diritto ho di parlarne? Eppure il dibattito non si è tenuto in una sede di partito, ma accanto alla strada. Si rompono le pareti fra pubblico e privato, fra dentro e fuori.)

Sulla Gazzetta di Saluzzo si afferma che l’invito di Barca è una mossa della «sinistra» del partito, in attesa della risposta dei «renziani» di zona. Gli ospiti riflettono sulle sorti e sugli errori del loro partito e nell’aria aleggiano le delusioni degli ultimi mesi, posso percepire l’incomprensione per l’accordo delle larghe intese e la preoccupazione per il congresso sempre più vicino, per una crisi sociale e politica sempre più soffocante. Si sente nell’atmosfera il desiderio di un partito dall’anima più sociale e «moderna». (Anticipo che i tre relatori concordano su tutto e che ogni intervento è accolto da applausi convinti.)

Gribaudo, dopo aver esposto le difficoltà interne al gruppo parlamentare di cui fa parte, invoca una «politica diversa», da «costruire insieme» ai militanti. E chiude il suo intervento: «Il tema centrale è la coesione sociale». Anche per il sindaco di Saluzzo la «coesione sociale» è fondamentale: «oggi ottocento africani a Saluzzo… noi siamo soli come cani abbandonati sulla strada.» L’amministrazione comunale, secondo Allemano, è stata abbandonata a sé stessa: Stato ed Europa non hanno assunto le loro responsabilità, lasciando al comune nodi troppo intricati da sciogliere. Anche il sindaco si augura una nuova partecipazione: «Siamo qui per conoscere e costruire una relazione con i cittadini: capire cosa pensa il territorio

Sotto gli archi ogivali vedo camicie, occhiali da sole appoggiati sui capelli, pantaloni beige, scarpe da ginnastica e pantaloncini corti. L’acustica è nitida nel caldo del pomeriggio, ed è il turno di Barca. La sua riflessione prende le mosse dal «distacco fra chi fa la politica e chi vive» e individua una «distanza società-governo.» Solo un partito diverso da Pd attuale potrebbe ricomporre la lacerazione. Ma perché finora non si è riformata la struttura del partito? Secondo Barca un «baco» si è insinuato nella logica di alcuni suoi dirigenti: «esiste un retropensiero in molti di noi, secondo cui il vero problema sia il deficit di potere del nostro sistema istituzionale, l’idea che il sistema sia farraginoso e vada riformato.» Il «baco» del semipresidenzialismo. I democratici, allora, dovrebbero rendersi conto del contrario («i poteri del Consiglio dei Ministri sono già enormi») e lottare non per l’accentramento dei poteri, ma per incentivare una maggiore partecipazione politica da parte dei cittadini attivi sui territori. «Il partito del 2013 si trova in un mondo policentrico e se vuole essere davvero moderno deve accettare il conflitto; e il conflitto si traduce nel confronto con la società civile, nella reciproca influenza fra i cittadini e l’organizzazione politica.» In sintesi, Barca propone un modello di partito in grado di esprimere un governo, ma allo stesso tempo aperto alle realtà territoriali. Il partito è descritto come un diaframma fra territorio e apparato governativo, la cui spinta partecipativa provenga dal basso e ispiri, in alto, il lavoro dei governi a venire.

Ed è vero – ma queste sono solo mie congetture – che l’idea di Barca è «moderna», poiché si ispira alla tradizione politica della sinistra novecentesca: il partito come mediazione fra le spinte della società civile e gli organi della rappresentanza e del governo. Vi è solo una differenza: il «territorio». Prima il «partito di sinistra» organizzava la classe lavoratrice in vista di una possibile gestione del potere e di conseguenza definiva il suo bacino di riferimento a partire da un’analisi della società e da una definizione degli orizzonti verso cui tendere. Nella proposta di partito di Barca mi pare che agli operai e ai contadini sia stato sostituito il territorio: a un’idea storica e sociale subentra un concetto prettamente geografico. Ma cos’è il territorio? Di nuovo: è un’area investita di una funzione politica? Il territorio “comunale”, “regionale”, “nazionale”, e su, su ancora? Oppure è l’insieme di cittadini aggregati a partire dai confini politici delle amministrazioni? E quali cittadini, tutti? I cittadini progressisti? I lavoratori, gli imprenditori, i precari? I cattolici e i laici? L’ecumenismo sognato dal Pd, forse, si fonda su una confusa idea di territorio, area spaziale del politico che accoglie un po’ tutti. Non tutti, qualcuno rimane escluso.

E infine.saluzzoColdiretti1

Il campo del Foro Boario è un mare di biciclette in movimento, di biciclette parcheggiate e lasciate senza lucchetto. «Sono regali della Caritas.» Moustafa sta facendo il caffè in una moka. Non ha un fornellino a gas, ma adopera un calice di ferro con una base piuttosto larga e con una coppa capiente in cima. Nella concavità ha disposto alcuni carboni ardenti, sopra la brace fuma la caffettiera. Ricostruisce in francese l’origine del suo arnese: «Qui sotto ho usato il ferro di vecchie ruote della bici, poi ho intrecciato i fili di ferro di alcuni copertoni.» Un fornello di rifiuti e metalli dismessi. Gli chiedo se ha bruciato i copertoni. «Una piccola, piccola parte, e ho preso il ferro necessario per costruire.»

 Sono lavoratori e disoccupati, ma non sono cittadini italiani: come potrebbe un partito vedere in loro una “base”? Provengono da nazioni sub-sahariane e prima di raggiungere le coste mediterranee hanno attraversato diversi confini. Adesso, in Italia, viaggiano da un capo all’altro della penisola: molti sono arrivati due settimane fa a Saluzzo e a fine stagione ripartiranno alla ricerca di nuove occupazioni. Alcuni sperano di avere la possibilità di andare in Francia, o ancora oltre. Altri magari torneranno indietro. «In fondo in Africa non era così male, ogni tanto penso di tornarvi», mi confida uno di loro. E allora qual è il senso di “provincia”, di “regione”? Di “stato nazionale”? La politica riesce a interpretare questo magma di flussi di persone, di scambi, di territori infranti e attraversati da vite organizzate in accampamenti precari? Ha ragione Allemano: una dimensione politica scarica le responsabilità sull’altra, così da disegnare un gioco di riflessi fra differenti soggetti competenti: la Regione non esiste, lo Stato è immobile, l’Europa fa finta di nulla. (E poi: cosa c’è dopo l’Europa?) L’idea di territorio definita dagli Stati nazionali durante gli ultimi due secoli non sembra in grado di comprendere le migrazioni e la fisionomia mobile del lavoro internazionale. Ma allora perché insistere con categorie ormai rotte quando si immagina la prassi politica?

Giunge al campo una delegazione di esponenti del Pd: Gribaudo, alcuni ragazzi delle giovanili e forse sparuti dirigenti di lungo corso. Visitano i container, io da lontano vedo le loro figure in piedi stringere le braccia contro il busto. La delegazione abbandona l’area Coldiretti e indugia un poco nell’accampamento fuori dai cancelli. Barca era stato annunciato, ma non si è presentato.

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Articolo di Francesco Migliaccio. Le foto del campo Coldiretti sono del Comitato Antirazzista Saluzzese, mentre il panorama di Saluzzo è di marcobillo (flickr.com).